Dopo 22 giorni di viaggio, dormire in tenda era diventata la normalità. Il corpo si abitua alla durezza del suolo, il collo alla mancanza del cuscino morbido, la mente al rumore della pioggia sulla tenda. Quella notte però tutto era un po’ diverso.
Mi sveglio di soprassalto nella nostra fedele tenda Bertoni, ben salda al suolo di una sperduta collina mongola, una leggera brezza notturna fa ondeggiare la tela: fin qui tutto regolare. Poi mi ricordo di avere un coltello sotto il sacco a pelo, vedo papà di fianco a me al posto di una delle mie compagne di viaggio, e la mente incerta associa al rumore di passi estranei a poca distanza la paura di essere rapinati dalla mafia cinese.
Sono passati diversi anni da quel momento, era la notte tra il 17 e 18 Agosto 2012, e dopo quasi un mese di viaggio, eravamo ormai a 360 km da Ulaanbaatar, capitale della Mongolia e tappa finale del nostro Mongol Rally.
A quel punto non ricordo neanche più quando ho fatto l’ultima doccia. La maglia bianca del team e’ rossa come la polvere del deserto del Gobi, non ha senso cambiarla, sarebbe di nuovo sporca in poche ore. I capelli castani sono di una tonalità più chiara, le mani screpolate dalla sabbia e dalle intemperie, le sopracciglia rese voluminose dai granelli di polvere.
Quella mattina, come da programma, impostiamo il GPS in direzione di Karakanda, conosciuta per il monastero Buddista Erdene Zuu, e probabilmente uno dei posti più turistici del viaggio. Avvicinandoci alla meta, siamo accolti dalle classiche abitazioni della Mongolia rurale: qualche gher sparsa per la pianura, un’infinita distesa di colline e cielo blu. In lontananza scorgiamo una decina di tendoni bianchi che ricordano un mercatino, più in là, piccole all’orizzonte, le mura del tempio.
Ci avviciniamo sperando di trovare qualcosa da mangiare. E’ ormai pomeriggio, e siamo affamati, avendo saltato il pranzo. Il mercatino e’ costituito da tendoni bianchi rettangolari con la parte superiore spiovente che ricorda il circo, posizionati uno di fianco all’altro sulla piana sabbiosa. Difficile non notare che il luogo e’ più trafficato rispetto alle lande desolate a cui la Mongolia ci ha abituati.
Troviamo il baracchino delle cibarie, e non appena entrati, veniamo travolti dall’odore di montone, un po’ come ogni altro posto che abbia un cucinino in Mongolia. Ancora oggi, l’odore della carne di pecora riesce a penetrarmi le narici dandomi una sensazione di nausea; un odore che automaticamente mi riporta ai piatti tipici della cucina autoctona mongola, alquanto difficili da mandar giù. Il gruppo si siede ad un tavolinetto mentre io e Giulia ci avviciniamo al bancone per ordinare. Tre ragazze intente ad impastare e friggere ci sorridono. Menu del giorno: panzerottini ripieni di riso e montone. Non sappiamo leggere il cirillico, ma le figure sul pannello di fianco alla cassa parlano chiaro. Uno sguardo complice con Giulia basta: nessuna delle due avrebbe mangiato montone quel giorno.
Dovete sapere che in Mongolia si mangia il piatto del giorno, non ci sono camerieri che ti coccolano porgendoti un menù elaborato con 50 piatti disponibili tra primi, secondi e contorni. E soprattutto non c’è la mamma che se non ti piacciono le bucce dei pomodori nel sugo te lo passa per bene. Se la cuoca cucina montone, e hai fame, mangi montone. Ma noi siamo determinate e vorremmo una leggera variante, la versione vegetariana del piatto, ovvero panzerottini fritti ripieni di solo riso. Attenzione: non stiamo parlando di arancini siciliani con il cuore di mozzarella che si scioglie in bocca, stiamo parlando di riso in bianco, avvolto da una pasta tipo pizza e fritti nel grasso di montone. Volenti o nolenti un po’ di capra ce la becchiamo comunque.
Una delle ragazze si avvicina alla cassa, sorridiamo, e sappiamo perfettamente che il fatto che Giulia parli fluentemente cinque lingue in quel momento non e’ d’aiuto. E’ il momento di tirar fuori il nostro asso nella manica, un gesto che abbiamo imparato i giorni precedenti dagli autoctoni e che è universalmente riconosciuto in Mongolia come il “no categorico”: Consiste nel creare una “X” con le braccia, ottenuta piegando i gomiti e incrociando gli avambracci, a livello del torso, che poi si apre con un movimento deciso dall’altro verso il basso separando le braccia. Forti di possedere “il no categorico”, abbiamo bisogno della seconda variabile, la pecora. Speriamo che le pecore mongole facciano lo stesso verso delle nostre.
Ed ecco che entrano in gioco le nostre doti da performers, anni di canto, spettacoli e teatro, tutto quello che abbiamo imparato si gioca in quell’istante. “Beee beee beee” cominciamo a dire, per poi immediatamente dare il segnale del “no categorico”. A ripetizione. Siamo accolte da facce sbalordite e risatine imbarazzate. La ragazza ci guarda più intensamente, le altre due che erano in cucina si avvicinano. Non ci diamo per vinte e continuiamo a belare e a creare “X” immaginarie nell’aria. E’ una questione di sopravvivenza a questo punto. Incuriositi, anche gli altri presenti si girano verso di noi, tutti interessati ad indovinare il titolo di quel film. Due parole, idee? Avremmo dovuto far pagare il biglietto all’entrata.
Nonostante l’impeccabile performance, non abbiamo ancora raggiunto l’obiettivo desiderato. Aggiungiamo un ulteriore indizio alla scenetta, il mimo della preparazione del panzerotto indicando gli ingredienti che intravediamo dalla nostra postazione. Una delle cuoche tocca un pezzo di impasto, facciamo un cenno positivo con il capo. Poggia la pastella sul piano da lavoro e non togliendoci gli occhi di dosso segue le nostre istruzioni: impasto, riso, chiudi, friggi. Applauso, standing ovation, bis, alleluia, accolgono il primo panzerottino vegetariano. Ne ordiniamo altri 14. Mentre mangiamo quello che ci sembra un pasto da re vediamo le ragazze replicare la ricetta di nascosto, ecco che una di loro addenta la nuova creazione. Non chiaro se sarà sul menù di domani.
A questo punto caro lettore i ricordi si fanno meno chiari, quello che sappiamo è che ci troviamo a parlare con due ragazzi carini e un po intriganti, anche loro in viaggio tra le terre mongole. Non ricordiamo i nomi, ma per questo racconto li chiameremo Simon & Garfunkel (rinominati da Alberto). Simon è australiano, Garfunkel canadese (forse). I due sono partiti per un’avventura solitaria in giro per il mondo, entrambi in moto, e dopo essersi incontrati in Mongolia, hanno deciso di proseguire parte del viaggio insieme. Sono ormai in giro da sei mesi, le moto che hanno sono state acquistate in Mongolia ad un mercato locale: “Più facile e meno costoso” ci dicono “puoi rivenderle una volta finito il viaggio invece di doverle spedire o di importarle in una nuova nazione”. Il racconto delle moto interessa ai Nomad appassionati di motori, e i due ragazzi interessano alle Mamas, fa sempre piacere parlare con giovanotti single in viaggio.
Ormai è pomeriggio inoltrato, ed è ora di accamparsi per la notte. Simon & Garfunkel ci invitano a campeggiare con loro, su una collina adiacente dove hanno già fatto campo. Li seguiamo con le nostre fedeli Panda, e dopo dieci minuti arriviamo su uno spiazzo a meta’ di una collina, in cui vediamo due piccole tende, e un cerchio di pietre per il fuoco. “Il luogo non è protetto”, nota papà, sempre alla ricerca del punto più strategico dove poter passare la notte, ma in quel momento siamo tutti molto stanchi, e non dover trovare un altro adatto ci sembra l’idea migliore.
Cominciamo a scaricare le tende e a prepararci a fare campo quando notiamo una macchinina rossa salire su per la collina e fermarsi ad un po’ di distanza, a questo punto è ancora giorno. Immediatamente, Garfunkel, che fino a quel momento stava passeggiando con aria impaziente, corre verso la macchina. Non è abbastanza vicina per cogliere i dettagli di quello che sta per accadere, e solo due dei Nomad si accorgono di movimenti loschi. Garfunkel e il misterioso guidatore si allontanano scomparendo sotto la collina bloccando la visuale a chi è al di sopra. Dopo quello che sembra un bel po’ di tempo il giovincello canadese torna verso il campo, Orazio gli fa segno con il pollice alzato e lui ricambia il gesto, tutto regolare.
Mentre noi Mamas finiamo di montare la tenda, i Nomad vanno in esplorazione, non soddisfatti dopo lo scambio di pollici alzati e accenni con il capo. Alberto si avventura per primo e una volta tornato racconta ad alcuni di noi di aver trovato un torrente, probabilmente una sorgente. Niente di strano fino a quando non solleva una delle pietre e trova dei soldi di valuta sconosciuta, forse cinese. Che sia una fonte consacrata? La storia non ci piace, e anche Orazio va in avanscoperta confermando quanto visto da Alberto.
A questo punto è calata la notte e il passaparola è arrivato a tutti i componenti del gruppo tranne che a Giulia. Decidiamo che è importante che qualcuno si comporti normalmente e che faccia da diversivo mentre gli altri decidono il da farsi. Mi dispiace Giuli, sei stata scelta come agnello sacrificale.
Le teorie complottistiche ci fanno un baffo a confronto, infatti ci facciamo tutti, chi più’ chi meno, prendere dal panico. Siamo d’accordo sul fatto che ci sia sotto qualcosa di losco, ma cosa potrebbe essere?
- Sara’ una pozza sacra, punto di preghiera dove i locali lasciano offerte… Bello, ma poco probabile.
- E se fosse un luogo d’incontro per spacciare droga? Magari Simon & Garfunkel consumano e sanno che gli spacciatori passano per queste strade… Possibile, ma allarmante.
- E se invece Simon & Garfunkel fossero in combutta con la mafia locale, o addirittura con la mafia cinese? E se stessero cercando vittime per lo spaccio di organi? Ok, in un attimo siamo passati dal punto di preghiera a morte certa.
- E se fossero stati assunti per adescare e rapinare viaggiatori nella notte? Questa ci sembra una via di mezzo possibile, che risulterebbe nella perdita degli averi, ma non della vita. Ci soffermiamo su questa ipotesi.
Una volta considerate altre possibili teorie, la domanda diventa: restare o andare via?
Elenchiamo i pro e i contro.
Pro:
- Non veniamo rapiti e/o uccisi
Contro:
- E’ notte, disfare il campo adesso significherebbe dover trovare un altro posto per la notte al buio
- E’ notte, quanto lontano potremmo andare? I ragazzi ci troverebbero e ci ucciderebbero comunque
- Alla vista del disfacimento del campo i ragazzi potrebbero velocizzare la transazione e ucciderci prima
Decidiamo che i contro sono più dei pro, ed in ogni caso tutte le ipotesi portano ad una fine tragica. Staremo attenti durante la serata, coltelli alla mano pronti a fuggire e lasciare tutto nel caso gli “altri” vengano a prenderci. I telefoni non prendono, non possiamo neanche chiamare i nostri cari per l’ultimo saluto.
Nonostante la scelta di rimanere sia stata fatta piu’ o meno all’unanimità, alcuni membri del gruppo sono seriamente preoccupati, specialmente l’Ale che nonostante tutto decide di allietare la serata con la chitarra e Marco Gino che invece continua ad andare avanti e indietro verso la collina e verso di noi in caso si avvicinino altre macchine sospette. I ricordi diventano sempre meno nitidi da qui in avanti, non aiutati dal consumo dell’alcool. Ricordo conversazioni preoccupate vicino alle Panda, poi il gruppo seduto intorno al fuoco su un telo, la Giuli che suona e canta Banana Pancakes di Jack Johnson. Nessuno beve troppo quella sera, meglio rimanere sobri, al contrario i due ragazzi ci danno dentro. Che fosse una tattica per confonderci?
E’ tardi, tardissimo, siamo tutti stanchi e il sonno prende il sopravvento. Marco Gino e l’Ale decidono di dormire in macchina, saranno quelli di guardia: “Meglio avere la visuale sul fuori che dormire chiusi in tenda”. Sarebbe stata una buona idea, peccato che entrambi si addormentino di colpo. Dalla tenda sento la Giuli che suona ancora la chitarra. Sono sdraiata fuori dal sacco a pelo vestita, pronta per scappare nel caso ci fosse stato bisogno, ho un coltello sotto al sacco a pelo, saprò’ come usarlo in caso di bisogno. Papa’ decide di dormire nella nostra tenda, Alberto da solo nell’altra. Tutti i propositi di rimanere allerta sono vani e anche io sprofondo in un sonno pesante.
Mi sveglio nel cuore della notte, passi che si aggirano attorno alle tende. Non penso gli altri siano svegli, sento solo respiri grevi nella notte. Tocco il coltello, è ancora li, lo prendo. Resto in ascolto. Qualche minuto, o forse molto di più fino a che i passi non svaniscono nella notte.
E poi di colpo è mattina, apro gli occhi, tutto tace, siamo ancora nella tenda, vivi. Esco il più silenziosamente possibile. C’è una calma normale, quella delle fresche mattine estive in tenda, quando solo la natura intorno si anima. Tutto è immobile, le Panda al loro posto con Marco Gino e l’Ale addormentati, le due tende di Simon e Garfunkel ancorate al suolo esattamente come la sera precedente. Esco, respiro quella brezza fresca, un grande senso di gratitudine mi permea i polmoni.
A poco a poco anche gli altri si svegliano, ci guardiamo silenziosamente, tutti grati di essere ancora vivi. Raccontiamo alla Giuli l’accaduto che sorpresissima ci dice di non essersi accorta di nulla. Secondo lei ci siamo fatti problemi inutili, infatti Garfunkel ha bevuto talmente tanto che la loro serata è terminata con una sboccata.
Nessuno vuole saperne di più, decidiamo che va bene non andare a fondo della faccenda, e che la pozza di Karakanda rimarrà’ per sempre un mistero irrisolto. Chiudiamo il campo il più velocemente possibile, e senza salutare ripartiamo per la prossima avventura.
Simi – Big Mamas team member